Aspettavo. Sono arrivati. Puntuali.
Me lo vengono a raccontare. “Vai a vedere cosa scrivono”. “Chiedono come mai hai perso di trenta punti con i tuoi bambini di undici e dodici anni?…”
“Tu cosa dici?”
E cosa dovrei dire?:
«Nello sport si vince o non si vince ma non si perde mai!»
Dico che il principio base deve sempre essere quello di ricordare che l’obiettivo è il miglioramento e non la vittoria!
Prendo comunque spunto per ragionare su alcuni aspetti legati al modo di vivere oggi la sconfitta e la vittoria, facendo presente che la mia scelta di quest’anno è stata quella di guidare un gruppo di ragazzini che stanno imparando i primi rudimenti del basket e quindi la loro formazione passerà senza ombra di dubbio da numerose sconfitte sul campo, con scarti anche maggiori di trenta punti.
Ben vengano queste sconfitte.
In un articolo precedente ho già trattato l’argomento.
Ritengo che la sconfitta sia di capitale importanza per la formazione di un uomo.
Non risolvere il conflitto interiore che la sconfitta provoca è un grave problema che può ripercuotersi negativamente nella sfera emotiva dell’individuo.
La paura di perdere è a mio avviso più pericolosa della sconfitta vera e propria.
Chi non riesce a metabolizzare una sconfitta o chi è felice per quella altrui, se vuol rimanere a lungo nel mondo dello sport deve lavorare molto su se stesso.
Ma pensiamoci un po’ !?! Alla fine che cosa ho perso se da una partita il punteggio ha decretato un vincitore diverso da me? Ho lasciato in campo un pezzo di me stesso? Ho un peso specifico inferiore?
E’ la paura della sconfitta che deve essere vinta. Non bisogna lagnarsi per la batosta subita.
Al giorno d’oggi i ragazzi sono spaventati, sono timorosi; sopraffatti da una timidezza eccezionale se rapportata all’importanza della prova richiesta. Un brutto voto preso che genera la paura di non riuscire ad essere promossi è innaturale.
Venire rifiutati o mollati, apre le porte alla sofferenza, annienta l’autostima, squarcia una personalità ancora in fase di costruzione. Il giudizio attinente al possesso o meno di alcune capacità viene vissuto come una considerazione che coinvolge l’interezza dell’individuo. Conseguentemente il ragazzo si sente inadatto, fuori posto, fallito. Allora può succedere che si taglino le relazioni, si abbandoni la scuola, lo sport.
Dare il giusto peso alla sconfitta, è oggi molto importante in quanto, mancando la cultura maturata dall’esperienza, essa, non viene più vissuta come opportunità per uno sviluppo psicologico, fisico, tecnico ma, paradossalmente, è la prova indiscutibile del trovarsi dalla parte sbagliata della barricata, quella dei perdenti, degli scadenti, degli incapaci.
Chiedersi quali siano state le cause di questo atteggiamento è necessario.
Penso che una delle ragioni della mancanza di una cultura della sconfitta sia la mancanza assoluta della cultura della vittoria.
Al di fuori dell’ambito sportivo (anche in questo campo ci sarebbe da discutere), i ragazzi sono pressati ogni giorno da un continuo bombardamento di informazioni provenienti dalla TV, i social media, la pubblicità, i reality che celebrano solo il successo. Non raccontano come raggiungerlo e sottacciono i sacrifici e le privazioni che gli autori hanno dovuto affrontare per conseguirlo. Si alimentano però le offese, gli sfottò, la mancanza di educazione, la diffamazione, la maldicenza verso l’avversario.
Facile è quindi comprendere come mai la vittoria venga vissuta come lo scopo unico del loro agire, un traguardo, drammaticamente, del tutto svincolato da analisi di natura morale: l’importante è stare sul carro dei vincitori, come ci si salga sopra non ha nessunissima importanza.
D’altra parte gli adolescenti non ritrovano più in altri settori di formazione quali, ieri, potevano essere gli oratori, un tipo di insegnamento atto a rigettare la relazione che unisce il trionfo alla mancanza di etica.
La scuola (a volte) e i genitori (spesso), anche se sovente in guerra tra di loro, alla fine contribuiscono a generare lo stesso effetto, che è quello di abituare a guardare alla sconfitta non come a un episodio causato dal mancato raggiungimento di certe abilità, di un certo allenamento, di una certa maturità, ma come a una vicenda attribuibile alla responsabilità degli altri. Per loro quindi, la sconfitta deve quindi essere evitata, con qualsiasi mezzo.
Spesso, in caso di un voto insufficiente, che può dipendere così come dal non avere studiato quanto dal non avere capito bene un argomento o come utilizzare una regola o formula; così come a seguito di una sostituzione nel corso di una partita, i genitori chiedono un colloquio al professore, o l’allenatore, perché renda subito conto del suo operato e, ancor meglio, ammetta la propria colpa, riducendo o eliminando del tutto quella del figlio.
Anziché colloquiare con il ragazzo aiutandolo ad individuare gli sbagli, spronandolo a fare meglio, dando prova che il loro affetto nei suoi confronti resta comunque inalterato, affermando – al di là del voto, al di là dei minuti di gioco disputati – l’idea che si può vincere come si può perdere, ma che non è il solo risultato a determinare il valore totale di una persona.
Quando vedo i genitori che vanno alla ricerca di un colpevole, ho la netta sensazione che abbiano paura che l’insuccesso del figlio in qualche modo contamini anche la loro figura .
Viviamo sulla nostra pelle migrazioni di intere squadre di giocatori che vogliono essere inclusi in società vincenti. Forse pensano che basti indossare una maglietta importante per acquisire in automatico lo status di campione. Sono contenti quando le loro corazzate stendono al tappeto il malcapitato e quando capita di perdere la colpa è sempre di un fattore estraneo a loro stessi. Quando non è colpa dell’allenatore è stato l’arbitro. Quando non si può incolpare l’avversario sleale la colpa è di qualche compagno incapace.
Mancando l’anticorpo generato dalla sconfitta il corpo si ammala.
Sono anni che da settori giovanili importanti non escono giocatori in grado di competere ad alti livelli internazionali. Esistono giocatori bellissimi da vedere, fisicamente preparati, tecnicamente formati a regola d’arte che però, alle prime sconfitte personali lasciano cadere a terra ogni speranza e si lasciano sopraffare dagli eventi.
A 13 anni sono nella selezione della propria via, a 14 del proprio paese, a 15 della propria Regione, a 16 anni selezionati per la nazionale e poi? A giocare il campionato di basso livello che mai avrebbero nemmeno immaginato poter disputare. Sogni che diventano incubi.
Manca la corazza che solo la reazione alla sconfitta può dare. Manca il callo che una volta è stato una vescica.
Non siate sorpresi se qualche volta la mia squadra perderà, siate meravigliati se da quella stessa squadra non usciranno giocatori e uomini veri. Gente che saprà giocare e vivere sempre al massimo delle proprie capacità.
Roberto Cecchini