Sono ciò che sono grazie alle vittorie o alle sconfitte? Quante volte ho perso? Quante volte ho vinto?
Guardo avanti. Penso di aver regalato tutte le magliette e le divise di ogni società che ho allenato. Ne tengo solo qualcuna ma solo per evitare di andare da Decathlon a comprare materiale per andare in palestra. Aurora Desio, Forti e Liberi Monza, Treviglio Basket, Pallacanestro Cantù, Arese… sono solo alcune delle società nelle quali ho allenato. Gloriose, storiche compagini lombarde. Hanno fatto la storia della pallacanestro. Sono onorato di aver messo il mio granellino di sabbia e grato di averne raccolto sempre a manciate.
Decido di tornare ad allenare i ragazzi e voglio restituire quello che la pallacanestro mi ha insegnato negli anni. La “scuola di vita” dello sport mi ha insegnato a vincere? Mi ha insegnato come affrontare ogni aspetto della vita?
Quando dico che lo sport non crea il carattere, anzi, lo mette a dura prova… so quello che dico.
Quanti campioni ho conosciuto in questi anni? Quanti di questi erano campioni anche nella vita di tutti i giorni? Io sono un campione nella vita? I miei ragazzi lo saranno? Lo sport è educativo?
Quante domande…
Vivo lo sport come un percorso, una traccia da percorrere e non una strada parallela a quella della mia vita. Non salto di qua e di là secondo la convenienza. Non batto la via dello sport per due ore il lunedì, il mercoledì e il venerdì e qualche ora in più nel week-end in occasione della partita.
Quando alleno, cerco di dare tutto me stesso. Insegno le cose che conosco. Mi preparo per saperne sempre di più e dono le esperienze ai miei ragazzi. Ad ogni stagione arrivo però a un punto che non mi è mai chiaro e, prima di proseguire, devo capire.
I miei ragazzi vincono le loro partite per quello che sono io o per quello che loro sono veramente? Vincere perché hai avuto più prontezza nel cambiare una difesa, nel fare la modifica tattica per nascondere la debolezza della squadra, o far giocare il tuo miglior giocatore per tutto il tempo necessario per portare a casa la netta vittoria mi rende migliore? Ci rende migliori?
Quando sono in panchina far eseguire le scelte più facili più redditizie è una forte tentazione. Può diventare il modo di dare giustizia alle molte sconfitte di cui sono vittime i più deboli, quelli che non riescono ad avere un po’ di celebrità o uno spazio di visibilità. Questo è giusto? E’ educativo? Porta alla crescita?
Sono sicuro che ogni mia scelta e ogni mio comportamento sia verificato con attenzione dai miei giocatori e sono altrettanto sicuro di incidere molto su ogni ragazzo che alleno. Sono certo che con il mio modo di fare indichi la natura dei miei giudizi su ciò che ritengo sia bene e ciò che è male.
Occorre fare molto attenzione alle contraddizioni tra le regole e i valori che retoricamente si proclamano e s’insegnano ai giocatori e le condotte reali che smentiscono nei fatti quello che si dice a parole.
Un allenatore è richiamato ai suoi chiari, precisi, concreti obblighi. Certo, non è responsabile di ciò che è causato da altri, ma deve rispondere di ciò che dipende da lui. Non può gridare all’immoralità altrui quando poi non trova il coraggio di compiere dei gesti coerenti anche a costo di pagare di persona.
La fedeltà a certi principi etici dello sport non è solo questione d’ideali e proclami ma anche di decisioni e scelte operative, anche impopolari.
Purtroppo esiste una mentalità sempre più diffusa che suggerisce che pur di raggiungere alti traguardi occorre essere disposti a tutto. Non importa se il comportamento assunto sia sleale e potenzialmente nocivo, per la salute e per l’etica sportiva, quello che conta è offrire un’immagine vincente. In questo modo trasmettiamo il messaggio che un giorno di gloria vale tutta la vita, l’onestà, la rettitudine nel vivere lo sport.
E’ etico usare un giocatore fuori ruolo, per utilizzarlo per vincere partite che altrimenti sarebbero perse? E’ giusto eseguire giochi specifici per i migliori giocatori, relegando i comprimari ad eterni ruoli subalterni?
Mi trovo ad allenare una squadra che da quando è nata ha vissuto di luce riflessa. Sempre con un giocatore “stella” a dettare tempi e modi di gioco. Sempre messa al servizio del talento altrui. Poi il talento se ne va. Corre a giocare in una squadra più blasonata. Percorre la sua strada alla ricerca del suo meglio e lascia gli altri giocatori in balia di loro stessi. Allora la squadra cerca un’altra “star”, qualcuno che possa continuare a far vincere il gruppo, che consenta ancora di percorrere la strada della vittoria. Chiaramente la storia si ripete con lo stesso rituale. Ci si trova punto e a capo ma con un anno in meno di giovanili da fare. Un anno in meno di carriera sportiva.
Arriva l’allenatore che ha sempre allenato i campionati di Eccellenza, quello che conosce tutti gli schemi, quello che sa bene i trucchi, ogni difesa trappola, ogni zona mista. Quello che potrebbe parlare con gli arbitri… Farà lui la “stella”? E’ lui che farà vincere nuovamente sul campo?
Ma cosa succede quando il coach se ne andrà? Quando non ci sarà più? Quando i giocatori usciranno dalla realtà giovanile e dovranno scontrarsi nei campionati seniores?
Belle domande…
Mi chiedo… a chi lascerò i giocatori che non hanno sviluppato gli anticorpi per sopravvivere al mondo che andranno ad incontrare? Come potranno superare le sconfitte se fino a ieri hanno vissuto solo di vittorie fasulle?
Andranno a fare un solo allenamento e la partita? I meno peggio andranno con la prima squadra e gli altri nel dimenticatoio? Dovranno essere costretti a lasciare un mondo dello sport che amano ma che non li ha mai stimati per il loro potenziale valore? Soprattutto…. i giocatori sapranno mai qual è il loro reale valore?
Il basket si nutre principalmente dalla sua dimensione agonistica. La sua connaturale bellezza è di saper far nascere sempre nuove e avvincenti sfide, con se stessi e con gli altri.
Oggi la pallacanestro non rappresenta più soltanto un semplice gioco: è una cosa che muove denaro, parametri monetizzabili, un aspetto sconosciuto solo qualche tempo fa e che mette in moto interessi e genera conseguenze non certo irrilevanti. E’ però umanamente una cosa seria perché sa muovere grandi desideri e speranze.
Far crescere una passione significa, soffrire per un risultato, ma anche prenderne parte, dare valore alla propria vita, conoscendosi e sfidandosi. Sconfitta e vittoria sono i due volti, le due estreme facce, della competizione, un termine che non può relegarsi solo al gioco della pallacanestro ma anche alle qualità fisiche e mentali messe alla prova.
Mi pongo la domanda del limite al quale, come allenatore, devo darmi nel dosare il mio intervento poiché anche in me nasce l’esigenza della ricerca della voglia di superare me stesso, di confrontarmi, del verificare il mio limite.
«… il talento va coltivato ogni giorno, con costanza. Tutti ti chiedono di vincere, pubblico, allenatore, dirigenti, mass media, ma è un inganno: la vittoria è solo la conseguenza del fatto che sei bravo e la meta è dunque migliorare sempre. La vittoria è l’altra faccia della sconfitta e la sconfitta è lo stimolo più importante per favorire la ricerca di un miglioramento”.
Valerio Bianchini
Il mondo in cui viviamo è sempre più cinico. I rapporti umani sono dominati in misura crescente dalla ricerca del facile guadagno e cancella le identità individuali, causando un anonimato diffuso. Nella folla il singolo si mimetizza e si perde, fino al punto di divenire invisibile. Ognuno desidera il suo momento di ribalta e vorrebbe il faro puntato su di sé.
Mi rendo sempre più conto come, nelle nostre società sportive, le relazioni personali tendono a diventare più formali e asettiche. Ci si scambiano i messaggi con lo smartphone e si rifiutano i contatti personali. Lo spirito di competizione, la diffidenza verso potenziali concorrenti, la volontà di non scoprirsi agli occhi dell’altro, è notevolmente prevalente rispetto al desiderio di conoscersi, di capirsi, di condividere le esperienze.
La bravura di un allenatore, dirigente, educatore non si misura soltanto sulle sue qualità tecniche e di scopritore del talento, ma anche sulla sua capacità relazionale, di instaurare con i suoi atleti rapporti di dialogo. Dev’essere un uomo con un interesse genuino per il giocatore e disponibile all’ascolto e alla comprensione piuttosto che al solo giudizio; una persona vera che non si trincera dietro il proprio ruolo, ma è capace di costruire con i ragazzi relazioni fondate sulla coerenza.
Capisco da tanti segnali che i miei ragazzi, in questo momento, non sanno chi sono e quanto valgono. Vorrebbero scoprirlo ma hanno nello stesso tempo paura di saperlo. Temono di non essere all’altezza delle loro attese.
S’insegna non solo motivando o spiegando, ma anche attraverso una buona relazione. E’ l’amore con cui un allenatore si prende cura di un ragazzo, per quanto potenziale campione o panchinaro, gran realizzatore o giocatore modesto; è lo sforzo che fa per stargli vicino, il tempo che utilizza per lui, che farà risaltare la sua forza e potrà renderlo, ai suoi stessi occhi e a chi gli sta vicino, unico.
Quello che dopo tre mesi di allenamenti ho capito da ogni mio giocatore è che quello che cercano non è tanto il primeggiare a tutti i costi ma che siano valutati per quello che realmente sono e apprezzati per gli sforzi che stanno facendo per cercare di diventare migliori.
In questo modo, anche se non diventeranno campioni nello sport, scopriranno che la loro vita merita di essere vissuta.
Roberto Cecchini